Per decenni abbiamo costruito senza alcun strumento organico di pianificazione del territorio. I Piani regolatori dei Comuni non sono stati capaci di impedire la costruzione di mostri, anche in presenza di beni irriproducibili.
[/]
“Monumenti, coste, paesaggi e beni naturali sono stati letteralmente fagocitati dal cemento e dall’asfalto e, in alcuni casi, persi per sempre. E senza suscitare la reazione di nessuno, con il tacito assenso di cittadini, società civile, chiesa, amministratori, forze dell’opposizione. Adesso lo strumento di tutela c’è e si chiama “Piano Paesaggistico” della provincia di Siracusa. – commenta il presidente di Natura Sicula Fabio Morreale – È stato adottato con D.A. n. 98 del 01/02/2012, approvato con D.A. n. 5040 del 20/10/2017, pubblicato in Gazzetta Ufficiale della Regione Siciliana il 16 marzo 2018. Le linee guida del Piano, se rispettate, fanno evitare gli errori del passato. I risultati di uno sviluppo urbanistico senza Piano Paesaggistico è sotto gli occhi di tutti. Basta accorgersene. Oppure basta seguire questa rubrica ove una tantum mettiamo sotto i riflettori un caso, dando molto spazio alle immagini, le uniche capaci di dimostrare i danni arrecati. La rubrica nasce dalla conferenza omonima organizzata da Natura Sicula il 25 ottobre 2017″.
[/]
Thapsos massacrata dal polo industriale. “A Priolo (SR) , col cemento, a Megara iblea hanno coperto le necropoli, a Thapsos il villaggio. Eccovi due esempi, solo due tra tanti, di quello che ha fatto l’industria siracusana al patrimonio di tutti, alla bellezza, alle vestigie del nostro passato. Esempi di come la natura, il paesaggio, la cultura e i siti archeologici della zona settentrionale siracusana siano stati massacrati in nome del profitto. Di Megara mi sono già occupato in un altro articolo, adesso vi parlo dell’amaro destino riservato a Thapsos. Quest’ultimo è un importantissimo villaggio del Bronzo medio (1450-1270 a.C.) sviluppatosi nella penisola di Magnisi. La felice posizione geografica della penisola, collegata da un istmo e con una lunga spiaggia riparata dal vento, ne ha fatto un porto naturale in cui, 3500 anni fa, si è insediata una comunità che ha avviato per la prima volta una intensa rete di traffici commerciali col Mediterraneo, in particolare da e per l’Egeo (Micene e Cipro in particolare) e Malta. Anticamente la penisola era chiamata dalla gente “isola” in quanto, nelle giornate di alta marea, l’acqua sommergeva la stretta lingua di terra, unendo i due golfi e isolando il promontorio”.
Thapsos è anche il sito eponimo di una cultura che si sviluppò in tutta la Sicilia sud orientale (Plemmirio, Ortigia, Matrenza, Cozzo Pantano, Cozzo Monaco, ecc.). “Del sito preistorico rimangono le necropoli, il villaggio e parte della cinta muraria. Le prime indagini archeologiche si devono al Cavallari (1880) e all’Orsi (1884), ma limitatamente alle necropoli. Solo lo scavo condotto all’inizio degli anni 60 da Bernabò Brea fece scoprire l’esistenza e l’ubicazione del villaggio nell’area prossima all’istmo. Peccato però che Bernabò Brea arrivò qualche anno dopo che la ESPESI (EStrazioni PEtrolifere SIciliane), su parte dello stesso istmo, edificò un complesso industriale composto da alcuni capannoni e da alcuni edifici adibiti a uffici, distruggendo la parte meridionale del villaggio. L’archeologo genovese, e a seguire il Voza, durante le campagne di scavo dovettero prendere atto che parte del villaggio era sepolto sotto gli edifici della ESPESI. L’industria era un’impresa bolognese a capitale privato che occupava circa 100 operai nell’estrazione del bromo dall’acqua marina. Si insediò a Thapsos nel 1958, negli anni in cui le raffinerie, in primis quella del famoso cavalier Moratti (quello dell’Inter, per capirci), avevano cominciato a distruggere le bellezze costiere di Augusta, Melilli e Priolo. In quegli anni Thapsos si venne a trovare nel cuore di questa nuova zona industriale, tra cemento, acciaio e petrolio. Tra fumi, miasmi e ciminiere”.
“Oltre al sito archeologico venne fagocitato l’intero borgo di Marina di Melilli (900 abitanti), evacuato con la forza e raso al suolo per far posto all’avanzante crescita del polo industriale. L’ecomostro della ESPESI quindi fu costruito sopra una fetta dell’abitato preistorico. L’osservatore attento riesce a comprendere bene qual è l’area del villaggio irrimediabilmente perduta: è proprio quella in cui la sequenza dei capanni del villaggio protourbano si interrompe bruscamente per lasciare il posto agli edifici industriali. La fabbrica di bromo durò quasi un ventennio (fu chiusa negli anni 70 per dissesto finanziario), ma la perdita del capitale archeologico è per sempre. Oggi la Penisola Magnisi si presenta come una estesa radura il cui istmo è occupato a destra dal peggior biglietto di visita, un ecomostro di lamiera e cemento, e a sinistra da un’area di 20.000 m2 inquinata da ceneri di pirite e inerti, sequestrata nel 2012 e in perenne attesa di bonifica”.
“L’Amministrazione comunale di Priolo Gargallo, divenuta nel frattempo proprietaria della ex fabbrica, vuole ristrutturare l’ecomostro per destinarlo a Centro di ricerca e studi dell’ambiente marino e costiero siracusano, oppure a centro visite e foresteria della vicina riserva naturale “Saline di Priolo”. Qualsiasi progetto di recupero, se non avverrà contestualmente alla bonifica e alla riqualificazione di tutto il contesto della penisola e del borgo fantasma di Marina di Melilli, sarà solo spreco di denaro pubblico. – ha concluso – Tra cumuli di pirite, discariche di rifiuti pericolosi, miasmi, tubi ferrosi per il trasporto di petrolio, un’area di stoccaggio di idrocarburi e un pontile per le petroliere che per errore sversò in mare 150 metri cubi di greggio e inquinò tutti i terreni circostanti, si creerebbe l’ennesima cattedrale nel deserto col solo scopo di fare arrivare una pioggia di soldi pubblici”.