C’è una sera che non passa mai. È quella in cui il cuore resta appeso a una parola sola: Resta.
Bruno Martino l’aveva scritta come si compone una lettera mai spedita, con eleganza e distacco. La sua voce fluttuava tra le pieghe di un amore che si consuma nel silenzio, con la grazia di chi sa che il dolore va portato con stile. Ma oggi, quella parola si veste di nuovi colori, più caldi, più umani. Salvo Fruciano la riprende tra le dita e la fa tremare, come se fosse la sua.
Nel suo Resta, non c’è scenografia, non ci sono riflettori. Solo una voce, quasi un sussurro, che accarezza il testo con la delicatezza di chi ha amato davvero e forse ha perso. La sua interpretazione è un abbraccio discreto, un gesto intimo che non chiede attenzione ma la conquista. L’arrangiamento si fa essenziale, per lasciare spazio alla verità della voce, nuda, tremante, vera.
Fruciano non reinventa, non stravolge: ascolta il brano come si ascolta una vecchia storia raccontata dal cuore, e ci mette il suo battito.
La malinconia diventa confessione, la nostalgia si fa presenza viva. Resta smette di essere solo una canzone e diventa una piccola preghiera laica, sussurrata a chi se n’è andato troppo presto, o a chi è rimasto ma non sente più.
E così, in una notte qualunque, in un silenzio qualunque, Fruciano ci ricorda che certe parole non hanno tempo. Hanno voce. E quando quella voce sa di verità, non serve altro.
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