La prima versione del libro “La responsabilità degli intellettuali” è stata pubblicata nel 1967, quando gli Stati Uniti d’America erano impegnati nella guerra del Vietnam. Questa edizione del 2019 contiene una interessante integrazione al testo ed una preziosa e recentissima intervista di Valentina Nicolì all’autore. Autore di certo immenso: non ha bisogno di presentazioni Noam Chomsky, maggior linguista vivente e anche punto di riferimento indiscusso per tutto l’attivismo internazionale.
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Chi era l’intellettuale negli anni sessanta? Quale ruolo hanno gli intellettuali nella società interconnessa di oggi? Chomsky ci ricorda che il termine intellettuale fece irruzione sulla scena nel lontano 1898 quando lo scrittore Émile Zola scrisse una lettera di protesta al presidente francese contro le accuse riservate all’ufficiale Dreyfus. Da questa presa di posizione derivò la composizione del “Manifesto degli intellettuali”: un atto di sfida al potere, in nome della giustizia.
Tenendo presente il contesto in cui fu coniato il termine “intellettuale”, Chomsky considera la coabitazione di due modi di vestirne i panni. Ci sono i cosiddetti intellettuali “responsabili” assoggettati ai poteri forti, sempre pronti a giustificare, avallare, propagandare le idee di chi comanda, tecnici, burocrati “esperti” sempre al servizio delle scelte del governo. Poi ci sono gli altri, gli amanti della giustizia, dello smascheramento, quelli che denunciano i soprusi, le nefandezze delle guerre di conquista, questi vengono chiamati “pazzi idealisti” e “pericolosi contestatori”.
Nello spiegare queste distinzioni, Chomsky effettua un lungo excursus storico sulle principali guerre che hanno visto coinvolti gli Stati Uniti d’America e contestualmente, con toni ironici e taglienti, sbugiarda molte delle ideologie sottese alle conquiste e agli interventi americani in diversi scenari di guerra: dal Vietnam al più recente conflitto in Afghanistan e poi in Iraq. Si torna più volta all’interno del testo sull’uso ambiguo del termine “responsabile”: si può essere responsabili, nell’accezione dei poteri forti, quando si obbedisce acriticamente alle ragioni di stato ma lo si può essere anche disobbedendo alle stesse quando queste violino i diritti universali in nome dell’interesse particolare.
Dunque secondo Chomsky l’intellettuale responsabile non è chi dà per buono ciò che i governi propagandano ma chi, riscontrando una bugia, la contesta per non restarne colluso: “È responsabilità degli intellettuali dire la verità e denunciarne le menzogne”[1]. Nell’ultima parte del testo, Valentina Nicolì riporta la discussione ai nostri tempi chiedendo al linguista come dovrebbe porsi un intellettuale rispetto ai social. La risposta è, nello stile dell’autore, semplice e profonda al contempo : <<i social media possono essere usati in maniera costruttiva, e talvolta lo sono. La mobilitazione e l’attivismo di solito passano attraverso i social. Ma è anche vero che i social forniscono i mezzi per prendersela contro il capro espiatorio di turno, sviando l’attenzione dai problemi reali e gravi della società>>[1]. Dunque, l’utilità delle tecnologie dipende dall’uso che se ne fa, di certo Chomsky affida i suoi pensieri ai social con lo scopo d stimolare la comprensione della realtà in un’epoca dove è facile creare malintesi e cadere preda di fake news.
[1] N.Chomsky, La responsabilità degli intellettuali, Milano, Adriano Salani Editore, 2019, pag.20