Un importante momento di confronto e approfondimento sul tema della violenza di genere si è svolto ieri pomeriggio nel salone di rappresentanza “Rocco Chinnici” del Palazzo di Città gremito di gente.
L’iniziativa, dal titolo “Abbi cura di me”, è stata promossa dall’Associazione Forense Megarese (Afm) è stata rivolta non solo agli addetti ai lavori ma anche all’intera cittadinanza, con l’obiettivo di rafforzare la cultura della prevenzione e del contrasto a ogni forma di abuso nel territorio della provincia di Siracusa.
Organizzato sotto la presidenza dell’avvocata Francesca Marcellino, il convegno ha visto la partecipazione di autorevoli rappresentanti delle istituzioni giudiziarie e delle forze dell’ordine, tra i quali il questore di Siracusa Roberto Pellicone, nonché esperti del settore psicologico.
Sono intervenuti infatti la procuratrice capo di Siracusa Sabrina Gambino, la dirigente della divisione Anticrimine della Questura Maria Antonietta Malandrino e Roberto Cafiso, componente del tavolo tecnico “Salute mentale” al ministero della Salute ed esperto di psicoterapia cognitivo-comportamentale.
Ad aprire i lavori sono stati saluti istituzionali del sindaco di Augusta Giuseppe Di Mare e del presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Siracusa Antonio Randazzo.
A moderare il dibattito è stato il penalista Puccio Forestiere, presidente onorario dell’Associazione forense megarese.
L’evento, che ha ottenuto il riconoscimento formativo dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Siracusa, rientra in un ciclo di incontri promossi in sinergia da quattro realtà forensi del territorio: oltre all’Afm di Augusta, hanno preso parte all’evento l’Associazione Forense Lentinese, l’Associazione Forense “Vito Giuffrida” di Floridia e l’Associazione Forense Promontorium di Pachino e Portopalo di Capo Passero.
Un’occasione importante, dunque, per rafforzare il dialogo tra istituzioni e cittadini e costruire una rete più consapevole ed efficace contro la violenza.
La procuratrice capo ha evidenziato come la violenza di genere rappresenti una delle più gravi e persistenti forme di violazione dei diritti umani nella nostra società.
Non è solo un fatto privato, un dramma domestico che si consuma tra le mura delle case: è un reato, un crimine che mina i fondamenti stessi della convivenza civile e della giustizia.
Come procuratore capo, assiste sovente alle conseguenze devastanti che questi atti lasciano sulle vittime.
Dietro ogni fascicolo, ogni denuncia, ogni richiesta di tutela, ci sono volti, storie, vite segnate da una violenza che troppo spesso viene minimizzata, taciuta o giustificata.
E questo silenzio complice è uno dei principali ostacoli al contrasto di questo fenomeno.
Il compito della magistratura inquirente, è quello di garantire che ogni denuncia sia accolta con serietà, che le indagini siano tempestive e accurate, e che le misure di protezione vengano attivate senza ritardi.
Ma la repressione, da sola, non basta.
Occorre una risposta corale, che coinvolga istituzioni, scuola, servizi sociali e mondo dell’informazione.
Perché la violenza di genere non nasce nei tribunali: nasce da una cultura distorta, patriarcale, che ancora oggi alimenta discriminazioni, stereotipi e forme sottili di sopraffazione.
La violenza di genere è una grave ferita sociale, diffusa anche nella provincia di Siracusa, dove pochi casi vengono denunciati.
Ha parlato anche dell’approccio col minore spesso testimone dei fatti ma anche vittima suggerendo che per la prima volta non si relazioni con l’avvocato perché ciò potrebbe compromettere la prova.
La dirigente anticrimine Maria Antonietta Malandrino ha sottolineato l’importanza di agire su due fronti: repressione con strumenti investigativi efficaci, e prevenzione tramite cultura, educazione e ascolto.
Fondamentale è la collaborazione tra forze dell’ordine, istituzioni, scuole e centri antiviolenza.
Tra gli strumenti di prevenzione c’è l’ammonimento del Questore, misura introdotta per intervenire prima che la violenza degeneri.
Consente di agire anche senza denuncia formale, convocando l’autore di comportamenti molesti per un richiamo ufficiale.
Sebbene abbia valore simbolico e deterrente, da solo può non bastare: deve essere parte di un sistema più ampio fatto di sostegno psicologico, ascolto e accompagnamento delle vittime.
L’ammonimento è un primo passo importante, ma servono interventi strutturati e collettivi per contrastare efficacemente la violenza di genere, partendo dal riconoscimento dei segnali e da un’educazione al rispetto e alla parità.
A conclusione del suo intervento ha trasmesso un video in memoria di Laura, una donna di Rosolini uccisa dal marito.
Sulle Dipendenze affettive in relazione alla violenza di genere si è soffermato in particolare Roberto Cafiso.
Nelle relazioni di coppia, la dipendenza affettiva può mascherarsi dietro gesti d’amore e bisogno dell’altro, ma spesso nasconde un disequilibrio profondo.
Quando una persona sente di non poter vivere senza l’altro, annullando sé stessa pur di mantenere il legame, si entra in una dinamica pericolosa.
Questo tipo di dipendenza può trasformarsi nel terreno fertile per la violenza psicologica, verbale e, nei casi più gravi, fisica.
Chi esercita il controllo sull’altro può giustificare i propri comportamenti con la scusa dell’amore o della gelosia, ma in realtà agisce per dominare e possedere.
La vittima, legata da una paura di perdere l’altro e da una visione distorta dell’amore, può restare intrappolata in un ciclo di soprusi e perdono, spesso senza rendersi conto della gravità della situazione.
Riconoscere i segnali della dipendenza affettiva è il primo passo per prevenire che una relazione tossica evolva in violenza di genere.
L’amore, quello sano, non toglie libertà: la protegge.
Contro l’immagine della famiglia patriarcale ha poi parlato l’esperto.
L’immagine della famiglia patriarcale, fondata sull’autorità esclusiva del padre, su ruoli rigidi e gerarchie imposte, è un modello che ha prodotto disuguaglianze, sofferenze silenziose e una limitazione della libertà individuale, soprattutto per donne e bambini.
Continuare a proporla, anche solo come “modello tradizionale”, significa normalizzare un’idea di famiglia basata sul controllo e sulla subordinazione.
Il convegno si è chiuso con tre interventi programmati di tre avvocati che hanno rivolte domande ai relatori.
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